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L’Etiopia e il conflitto in Tigray. L’attacco del premier Abiy a un anno dal Nobel. Profughi e vittime. Il monito di Oslo

«Abbiamo preso il bambino e siano scappati sotto le bombe. C’erano tanti morti. Siamo arrivati coperti di polvere, senza niente». Taharsta Mahya racconta la fuga dalla «guerra invisibile» del Tigray, 6 milioni di abitanti, uno spicchio di Etiopia passato nel giro di due settimane da grande esportatore di sesamo a esportatore di profughi. Come Mahya, oltre 32 mila persone sono fuggite in Sudan. Metà dei rifugiati ha meno di 18 anni. «Molti adulti sono bancari, medici, professionisti, gente che stava bene», racconta alla Reuters il responsabile locale dell’Unicef. Ne arrivano ogni giorno, nel campo improvvisato di Oum Rakoba. Unica proprietà, i vestiti che indossano. «Vivo sotto questo albero, dormo per terra», dice Yohannes Gor, 28 anni, fuggito da Humera. «Ho perso i miei familiari». L’Onu prevede un flusso di 200 mila profughi, in una zona del Sudan dove manca tutto.

Bombe e miliziani, ponti tagliati per fermare l’avanzata nemica, raid aerei, le prime notizie di massacri a sfondo etnico, con il machete, denunciati da Amnesty International. E i civili presi nel mezzo. Non nei «soliti» teatri di conflitti dimenticati. Non in Congo, ma nella terra che vanta un premier di pace, nel Paese della crescita economica a due cifre, il faro del Corno d’Africa, l’alleato fedele dell’Occidente, con 115 milioni di abitanti e dieci province disegnate su una faglia di rivalità etniche che si allargano anziché chiudersi. Nodi al pettine, scontri intestini e lontani dai riflettori internazionali.

La pace con l’Eritrea

Il governo di Addis Abeba dal 2018 è guidato da Abiy Ahmed, l’ex ufficiale della guerra cibernetica che ha avuto l’ardire di fare la pace con l’Eritrea del grande nemico Isaias Afewerki. Giusto un anno dopo l’assegnazione del Nobel, il 4 novembre, all’ombra delle elezioni Usa, Abiy ha lanciato un’offensiva tesa a scalzare la leadership della provincia ribelle (non «i fratelli del popolo tigrino») suoi acerrimi rivali. Secondo diverse fonti, comprese le agenzie umanitarie, le vittime (anche nel «popolo fratello») sono centinaia. Ogni giorno la conta va di pari passo con l’annuncio di nuove conquiste (smentite dai «ribelli», che conterebbero su 250 mila effettivi): «Abbiamo preso Adua e Axum. Ora Adigrat. Siamo a 120 km da Makallè»

fonte: https://www.corriere.it/esteri/20_novembre_21/nel-tigray-sesamo-sangue-l-etiopia-jugoslavia-d-africa-1748099a-2c34-11eb-b3be-93c88ba49aa1.shtml

La Comunità HEWO 

Esprimiamo una fortissima preoccupazione per la Comunità Hewo, quanto sta accadendo nelle ultime settimana è vicino all’ospedale Hewo di Quihà. Le linee telefoniche sono interrotte da giorni ed ogni tipo tipo di comunicazione con lo staff locale è sospeso.  Dopo la recente invasione di cavallette che ha messo ulteriormente in difficoltà la popolazione, oggi sentiamo parlare di guerra. Il nostro pensiero va a tutta la popolazione già provata da povertà e malattie; donne, uomini e bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria.

 

Un’esperienza di liberazione

Carlo e Franca Travaglino hanno vissuto per quasi cinquant’anni (dal 1968) in Eritrea e in Etiopia con malati di lebbra, di Aids, di tubercolosi, impegnandosi in un processo di liberazione della dignità e dell’umanità di ciascuno. Il loro racconto ci aiuta a comprendere quali ricchezze possono scaturire da comunità che sappiano dare vita a esperienze autentiche di condivisione e fraternità.

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Si chiude una porta, si apre un portone

E’ l’espressione di un’antica saggezza popolare.
E’ Fede? E’ lettura laica di ciò che si verifica ?
Ciascuno faccia la considerazione dal proprio punto di vista. Il fatto è  che essa trova  riscontro nella vita ancora oggi, nonostante la globalizzazione della indifferenza, del profitto e dell’egoismo.
Lo dimostra l’esperienza quotidiana delle Comunità H.E.W.O. in Etiopia.

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